LA MUSICA DEI NUMERI di Roberto Gramiccia
Testi critici
Da ragazzini ci insegnavano che le arti sono una cosa diversa dalle scienze. La musica una cosa diversa dalla matematica. La danza una cosa diversa dalla geometria. Per i più sofisticati: l'ésprit de geometrie una cosa diversa dall' ésprit de finesse. Insomma c'erano le discipline tecnicoscientifiche e quelle umanistiche. E le vite di chi si poteva permettere di studiare erano (e ancora sono) plasmate sul profilo di queste artificiose classificazioni. Chi riusciva in italiano avrebbe fatto il giornalista, l'avvocato, lo scrittore o almeno il cantautore. Chi riusciva bene in matematica: l'ingegnere, l'astronauta, lo scienziato o almeno il geometra. Uno spirito sovraordinatore di ispirazione pervicacemente crociana assegnava alle lettere e alla filosofia il primato e alle discipline più legate a realizzazioni pratiche il ruolo importante (ma minore) di organizzare la nostra vita materiale.
La mostra di Adele Lotito è il punto culminante di un percorso, dopo I dadi di dio e De le stelle fisse, che intende falsificare le idee che riempivano e condizionavano la nostra infanzia e che ancora imperversano, con l'aggravante che alla dialettica finesse/geometrie si è oggi aggiunta la melassa tossica della dittatura della tecnologia e della comunicazione. Una marmellata che tutto infiltra ed appiccica. Spegnendo le intelligenze critiche, inibendo le arti e imponendo le regole di un unico pensiero schierato a difesa del solo, vero, unico dominus: il profitto.
L'idea guida di questa originale artista è quella che, per capirci qualche cosa, bisogna ritornare alle origini del nostro pensiero. Ella lo fa con la velocità dell'arte che mostrando non ha bisogno di di-mostrare. Lo fa presentando all'inizio la reificazione della sua intuizione racchiusa in un oggetto, custodito in una teca di plexiglas e poggiato su un piccolo pavimento di volute di fumo solcate da numeri volanti. Questo oggetto è antichissimo. I greci lo chiamavano Kanon. Noi lo chiamiamo monocordo. E per capire quanto sia antico basti dire che a inventarlo e a costruirlo fu Pitagora circa duemila e cinquecento anni fa. Ce lo racconta Giamblico nella sua Vita di Pitagora che localizza le imprese del grande pensatore, in Calabria, a Crotone di Samo.
Un giorno Pitagora, passeggiando per questa città, passò davanti alla bottega di un fabbro e fu colpito dai suoni prodotti dai martelli che battevano sull'incudine. Alcuni erano consonanti e altri dissonanti. Fu un lampo. Pitagora entrò e strappò di mano il martello al fabbro, lo scagliò sull'incudine e constatò che due martelli dello stesso peso emettevano lo stesso suono e, se i martelli erano di peso diverso, anche il suono era diverso. Un'illuminazione in un attimo fece giustizia delle tenebre delle superstizioni arcaiche che consideravano, allora, i fenomeni sonori come il confine pauroso che separava il mondo degli abissi da quello visibile della natura. Pitagora intuì che alla base dei fenomeni sonori poteva esserci una spiegazione misurabile e razionale.
Fu allora che gli venne in mente, per studiare questi fenomeni, di costruire il kanon. I greci lo chiamarono così quando capirono che poteva rappresentare la regola o la ragione intima della materia visibile. Il kanon, oggi definito monocordo, era costituito da una cassetta rettangolare su cui era tesa una corda di bue e un sottostante ponticello mobile, utile a dividere in segmenti misurabili le parti vibranti della corda. Pitagora si accorse che dividendo la corda in due con il ponticello il suono emesso facendo vibrare ciascuna delle due metà della corda era in stretta relazione con quello ottenuto facendo vibrare la corda intera, ma aveva una sonorità più acuta e pungente, risuonando con una frequenza doppia. Egli aveva scoperto l'ottava, vale a dire l'intervallo tra il suono della voce di un adulto e quello di una donna o di un bambino, che emettono la stessa nota. Con analoga procedura, dividendo la corda in segmenti di diversa lunghezza, ottenne quella che oggi chiamiamo la quinta e l'intera scala musicale diatonica. I rapporti numerici variabili nella lunghezza della corda che veniva fatta vibrare erano alla base dei cambiamenti della qualità dei suoni e questi cambiamenti erano prevedibili e riproducibili.
L'arcano era svelato e il numero diventò l'elemento costitutivo essenziale. Da qui a sostenere che tutto è numero, che tutto è numero razionale, che tutto è razionale il passo è breve. L'arte della musica fondata sui numeri aveva svelato l'origine della scienza e il suo linguaggio. E lo aveva fatto mostrando la stretta relazione fra matematica e musica, fra matematica e arte. Non per caso i greci chiamavamo le arti musiké, cioè tutto ciò che è protetto dalla muse. La musica diventò la regina delle arti e Pitagora dimostrò il suo fondarsi sulla matematica. Insomma, l'esatto contrario della artificiosa e manichea contrapposizione fra ésprit de finesse ed ésprit de geometrie.
Attraverso l'uso del monocordo, oggi primum movens della mostra di Lotito, Pitagora inaugurò la sua concezione del mondo che vide la matematica fare da ponte fra il mondo oggettivo della natura, situato fuori di noi, e quello soggettivo, situato dentro di noi, entro il quale le arti vengono concepite prima di vedere la luce. Un tessuto unitario che tutto richiama a sé senza artificiose separazioni, senza i dualismi platonici (mondo delle idee e mondo delle cose) e cartesiani (res cogitans e res extensa) che interverranno in seguito e arriveranno fino a noi.
L'imporsi di un pensiero della scissione (Platone, Cartesio), che fonda la cultura del moderno occidente, sarà la base di quell'esasperata divisione del fare e del sapere che ha prodotto la frantumazione della nostra vita attuale e delle nostre relazioni. Senza un'idea del tutto si è condannati ad essere prigionieri del particolare. Che oggi significa essere schiavi dell'I phone senza accorgersi che il mondo procede a rapidi passi verso la rovina. La crisi economica che oggi viviamo, lo spettro della povertà che si profila anche in paesi tradizionalmente ricchi dovrebbe, almeno, farci riflettere suoi nostri destini e l'origine dei nostri guai. Adelo Lotito dà il suo autorevole contributo in questa direzione. Lo fa con la leggerezza ma anche la profondità che le sono proprie.
La musica dei numeri vuole porre l'accento sul legame consustanziale che esiste fra mondi solo apparentemente diversi. Vuole spiegare che un matematico vero non è un contabile. E un artista non è un acchiappanuvole. E che entrambi hanno responsabilità precise nei confronti del mondo e da questo discende il loro essere figure etiche. Etica, estetica, arte, conoscenza, linguaggio diventano gli elementi costitutivi di una weltanshauung che entra in conflitto (non certo da posizioni di forza) coi principi che oggi governano il mondo (mercato, concorrenza spietata, sopraffazione e guerra).
La concretezza di Adele, che dà peso persino alle volute di fumo che tracciate con la fiamma della candela, ha voluto proporre un esempio vivente della integrazione possibile, al massimo, livello delle parti costitutive nobili di un "intero indivisibile". Questo esempio vivente – perché il suo insegnamento sopravvive alla sua morte – è Renato Caccioppoli. La sua figura filiforme – André Gide lo chiamava l'âme – aleggia nelle stanze della Nuova Pesa e dà senso alle meditazioni che la mostra evoca. Caccioppoli fu la straordinaria mente matematica (andò in cattedra a 27 anni) che sostenne che per essere un vero matematico bisogna essere prima di tutto un poeta. Come lui fu poeta e intrepido antifascista nel tempo buio del regime. O' genio o il matematico matto come lo chiamavano a Napoli dove era nato fu – guarda caso – uno straordinario pianista, un amante del cinema, della letteratura e delle arti visive, un affascinante oratore, un uomo imperfetto, anche, e pieno di fragilità. La sua vita, tuttavia, fu l'esempio vivente di come si può essere uomini integrali componendo le proprie diversificate passioni in un'unica combattiva frontiera.
Nelle sale della galleria aleggia la musica di Debussy, quella che il matematico di più amava e, a tratti, riecheggia quella Marsigliese che ebbe il coraggio di sbattere in faccia a due tedeschi in una trattoria napoletana ai tempi del fascismo. Quell'atto esemplare e pazzo gli costò le botte, il carcere e poi il manicomio. Renato era così. Non poteva non essere insieme uno scienziato, un poeta, un uomo di giustizia e di libertà (non per niente era nipote di Bakunin).
Gli insegnamenti di Pitagora e di Caccioppoli oggi purtroppo non sono più attuali. Ma non è persa la speranza che, di fronte al disastro che ci è davanti, una nuova epoca di costruttivi dubbi possa nascere. Un'epoca che indichi le ragioni culturali e quelle politico-economiche della nostra crisi. Un tempo di riscatto che è diventato decisivo per la sopravvivenza civile della nostra specie.
Non è una visione banalmente mercatista che ci salverà, non ci salverà il neoliberismo globalizzato né la miserabile cultura delle tre i (informatica, inglese, impresa) che dovrebbe, secondo i dettami del pensiero unico, formare le nuove generazioni. A salvarci dovremo pensare noi, ciascuno di noi. Cominciando a rileggere la vita di Pitagora e quella di Caccioppoli e facendo tesoro delle loro teorie, dei loro calcoli, delle loro armonie.
Come ha fatto in questa circostanza un'artista dalla lunga storia e dagli ampi orizzonti (non a caso un'accanita viaggiatrice) che, oggi, ci indica una strada possibile. Le sue superfici in alluminio dipinte col nero fumo delle sue candele e solcate da numeri, da lettere e da note disegnano l'ideale fondale scenico di una rappresentazione sinestetica fatta di immagini, di musica e, finalmente, di idee non banali (le stesse di cui oggi abbiamo tanto bisogno). Nell'ultima stanza della galleria, dei grandi spartiti musicali richiamano ancora l'idea di musiké, come la concepivano i greci. Su di essi delle lettere arabe rammentano la genialità di un popolo che della matematica fu il principe. Un ritorno alle origini. Non per ripeterci. Ma per salvarci.